Totò Biografia:   La politica con un palmo di naso

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Totò rifà PinocchioCon un palmo di naso, la nuova rivista di Galdieri, debutta al Valle il 26 giugno 1944. Roma è stata liberata solo da una ventina di giorni e nel nuovo clima lo spettacolo non esita ad affrontare temi di attualità.

 

La rivista ritorna alla vocazione satirica soprattutto nei confronti della politica e dei suoi uomini più rappresentativi.

 

Come in Volumineide, ladri, apaches e gigolettes, invece di penetrare in una gioielleria, si ritrovano in una libreria. Totò rifà Pinocchio, un burattino affamato in cerca di cibo, ma in tutte le scatole che trova c’è scritto «Only for Allied Forces». Da una scatola esce la Libertà.

«Ah! Libertà in scatola», sospira il burattino.

 

In un altro quadro Pinocchio-Mussolini incontra Salomè e le dice che ha fatto tutto per il suo bene. Ma lei replica: «Se mi volevi bene veramente / dovevi agire un po’ più seriamente / dovevi fare meno profezie / dovevi dire meno fesserie / dovevi smascherare quei pagliacci / pensare più ai fagiuoli che ai Petacci».

 

Pinocchio le risponde: «Se mi volevi bene in quei momenti / non mi dovevi fare i monumenti. / E senza aver timor dei miei scherani / non mi dovevi battere le mani. / La cartolina rossa di adunata / dovevi rimandarmela stracciata. / Dovevi fare almeno sol la mossa / d’organizzar uno straccio di sommossa. / Quand’io pontificavo dal balcone / dovevi farmi almeno un pernacchione. / Quand’io facevo tutto a mio piacere / dovevi darmi un calcio nel sedere».

 

Nella rivista Totò fa anche una strepitosa caricatura di Hitler, che sembra tolta di peso da un album di George Grosz.

 

Se Mussolini è diventato semplicemente Pinocchio che parla con la voce tagliente del salvatore della patria, Hitler, oltre ai famigerati baffetti e il ciuffo spiaccicato sulla fronte, ha una bella gobba sotto cui pare soccombere.

 

Nel gennaio del 1943 Totò porta in provincia Imputati...alziamoci!, un copione di Galdieri già collaudato a Roma dalla compagnia di Olga Villi, Rossano Brazzi, Alberto Sordi. Con loro lavorava anche Peppino De Filippo. Nella nuova versione con Totò ci sono Lucy D’Albert, Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli.

 

Totò impersona Napoleone e quando un attore gli chiede: «Compagno?», lui gli risponde alla francese “camarade” ma lo pronuncia in modo distorto molto simile a “camerata”. L’altro non capisce e allora Totò replica: «Va bè, fa’ come vuoi.

 

Camarade o compagno è lo stesso». Alla fine dello spettacolo un partigiano, con la scusa di chiedergli un autografo, gli si avvicina e gli dà un pugno che gli spacca un labbro.

 

Totò avverte la polizia, ma più tardi vede che il partigiano è in compagnia del commissario. Allora, non sentendosi per niente protetto, decide di lasciare subito la città.

 

Qualche mese più tardi è al Sud, a Salerno, per uno spettacolo dedicato agli alleati inglesi e americani.

 

Con lui c’è anche Mario Castellani. Pensano che verranno capiti perché in sala ci dovrebbero essere molti oriundi.

In realtà non c’è neppure uno spettatore capace di afferrare le loro battute, ma si divertono lo stesso moltissimo.

 

Totò ha così la conferma che non servono testi ben scritti come pretenderebbe la sua spalla. Gli dice: «Hai visto che le chiacchiere non mi servono?

 

E il mio personaggio che fa ridere la gente. Per questi zulù abbiamo parlato ostrogoto, ma si sono divertiti lo stesso.

Avremmo potuto recitare una litania di insolenze, il risultato non sarebbe cambiato».

 

Pochi mesi dopo, all’inizio di giugno, Totò porta al Quattro Fontane una rivista di Oreste Biancoli che nel titolo, Un anno dopo, vuole ricordare l’anniversario della liberazione di Roma da parte degli alleati.

 

 

Il ratto delle SabinePoi l’attore torna al cinema con Il ratto delle Sabine diretto da Mario Bonnard, un ex divo del muto, di cui Petrolini ha fatto la caricatura in Castone.

Ma Bonnard è anche un artigiano dotato che tra l’altro ha già lavorato con un comico di successo come Angelo Musco.

 

Il film viene girato nella stessa sala corse di via degli Avignonesi, che è servita pochi mesi prima per gli interni di Roma città aperta di Roberto Rossellini, proprio alle spalle di palazzo Tittoni di via Rasella, nelle cui cantine aveva avuto sede anni prima il Teatro degli Indipendenti dei fratelli Bragaglia.

 

Totò nel film impersona un capocomico che mette in scena una commedia in cui è il re. A capo di una compagnia di guitti arriva in un paesino dove il maestro elementare, autore del copione, è disposto a ospitare tutta la compagnia pur di vedere rappresentata la sua commedia. Accanto a Totò, nelle vesti del maestro recita Carlo Campanini.

 

Totò gli fa le confidenze sulla sua battaglia araldica. «A Carie’, io qui faccio per scherzo, ma lo sono veramente!».

 

 E Campanini, che non è al corrente di nulla, pensa che si stia prendendo gioco di lui. Totò insiste: «Ma io sono veramente re». Il giorno dopo gli porta le carte dell’ufficio della consulta araldica per presentargli le prove. Mentre lavora al Quattro Fontane una sera va a trovarlo in camerino Carlo Dapporto e lo saluta: «Buonasera, principe». «Ah, ma lo sai pure tu». «Sì, guardi che lo sanno tutti».

 

«Meno male che sono solo principe», conclude Totò. «Pensa se ero re e sentivo un fetente che veniva a bussare per dirmi s’accomodi, tocca a lei, Altezza. Sarebbe stata una cosa un po’ troppo mortificante».

 

 

Principe o re, Totò riprende le sue ricerche araldiche un po’ in tutta Italia. A Napoli, una sera, lo attendono al teatro Reale per uno spettacolo ma lui, che di solito è di una puntualità assoluta, non si fa vedere.

 

Allora Elio Gigante, l’impresario della compagnia, io va a cercare e lo trova impegnato con sua maestà l’imperatore di Serbia, che è in realtà un ornino vestito con un abito nero pieno di macchie, in causa con la famiglia perché gli nega i titoli.

 

Chiede l’aiuto di Totò e in cambio gli promette di investirlo del titolo di principe appena possibile, e nel frattempo lo nomina ambasciatore.

 

Non ci sarà un seguito, ma Totò per qualche tempo si illude di essere davvero ambasciatore della Serbia.

 

Si rende conto che è una fissazione, ma alle sue ascendenze nobiliari tiene molto, se non altro per onorare i suoi antenati che sono stati sicuramente dei valorosi.

 

Al suo fianco ha l’avvocato Eugenio De Simone pronto a sporgere quercia contro chiunque avanzi dei dubbi sulla autenticità della sua ascendenza.

Prima di essere riconosciuto ufficialmente dal padre naturale, Totò era stato adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas che è un lontano parente della sua nonna materna, una contessa De Grazia.

 

 

Ma è solo dopo la morte del padre che, aiutato da esperti di araldica, vuole indagare a fondo sui titoli riportati nelle carte di famiglia. Scopre così di essere un diretto erede degli imperatori di Bisanzio con una nobiltà che risale al 362 avanti Cristo.

 

Con una sentenza del 18 luglio 1945, il tribunale di Napoli gli riconosce il diritto di fregiarsi dei nomi e dei titoli di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Cornneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, che si trovano riportati, con molti altri ancora, nel libro d’oro della nobiltà italiana.

 

 

 

La discendenza di Totò e i suoi diritti erano già stati riconosciuti con un decreto ministeriale del 6 maggio 1941 e saranno riconfermati da vari tribunali negli anni successivi. Nel gennaio 1946 l’attore è nuovamente al Quattro Fontane con Eravamo sette sorelle, una commedia musicale di Michele Galdieri e Aldo De Benedetti.

 

Si avvicina alla cinquantina, ma regge bene lo spettacolo, stando in scena quasi ininterrottamente dall’inizio alla fine. Mentre prosegue con successo la sua intensa attività teatrale, non desiste dalla battaglia araldica che, sempre con l’assistenza dal suo amico avvocato De Simone, lo vedrà impegnato a respingere le frequenti contestazioni dei numerosi pretendenti.

 

Nell’aprile del ‘46 la corte di appello di Napoli conferma Totò ultimo discendente della stirpe imperiale bizantina. In novembre porta in tournée in Spagna, a Barcellona, la rivista Entra dos luces, in cui gli è accanto Mario Castellani. E molto preoccupato di recitare in una lingua che non conosce e ha paura che gli spagnoli non capendolo possano fischiano.

 

Naturalmente ha un grande successo, tanto che il pubblico è disposto a sopportare lunghe code pur di andarlo a vedere, suscitando le invidie dei colleghi spagnoli.

 

Prima di partire, la notte dell’Epifania 1947, la compagnia dà un’ultima rappresentazione per i soli lavoratori dello spettacolo. Il pubblico, formato soprattutto da attori, è lì per giudicare lo straniero che si è assicurato la simpatia della gente. Ma se comincia a seguirlo un po’ freddino, è poi costretto, suo malgrado, a lasciarsi andare sempre più entusiasticamente all’ilarità. Durante lo stesso anno, mentre sta iniziando la stagione dei suoi grandi successi cinematografici, è ancora in teatro con due riviste.

 

 

Il 15 aprile debutta al teatro Valle di Roma con Ma se ci toccano nel nostro debole... di Nelli, Mangini, Garinei e Giovannini e il 21 dicembre è nello stesso teatro con C’era una volta il mondo di Michele Galdieri. Della compagnia fa parte anche una giovane soubrette, Isa Barzizza, che ha debuttato al cinema in estate con I due orfanelli, la parodia che Mario Mattòli ha fatto de Le due orfanelle.

 

 

E proprio Totò che la sceglie per la rivista. Con lei e Mario Castellani interpreta il famoso sketch del vagone letto, un’invenzione di che al debutto durava sì e no dieci minuti, e che con il protrarsi delle repliche arriva fino a quarantacinque perché allungata a braccio tutte le sere.

"Il principe Totò" Orio Caldiron (Gremese editore)

 

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