Totò visto da:   Federico Fellini

 

Federico FelliniRicordate Totò? Che stupefacente, misteriosa apparizione! La prima volta che l'ho visto, moltissimi anni fa, non sapevo niente di lui, non ne avevo nemmeno sentito parlare. C'era già la guerra nell'aria e io, da incosciente, mi godevo la città che l'oscuramento, con le sue luci schermate e verniciate di blu, rendeva più suggestiva, più complice, misteriosa.

Mi ero infilato in un piccolo cinema dietro la posta, dopo il film c'era l'avanspettacolo, e io ero stato risucchiato dentro, come sempre, dalla gigantografia della soubrette, una moracciona con la frangetta alla Claudette Colbert e i fianchi da mongolfiera.

Mi ricordo ancora come si chiamava, poiché anche il suo nome prometteva deliri: Olimpia Cavalli! Come mi piacerebbe rivederla! Entrai che il film era appena finito, si accendevano le luci e la platea, in un marasma fumoso e vociante, si concedeva un momentino di riposo: urla, sghignazzamenti da manicomio, giaccate in faccia.

Mi ero appena seduto in quella stiva di pirati pronti a tutto quando si fece sentire via via più sonora e pungente una musichetta da circo, una tarantella pazza e sinistra che percorse lo sgangherato stanzone come un irresistibile solletico.

La platea si agitava tutta, allargava le cosce, sbracandosi nella posizione più comoda, con ingordigia: era scoccato il segnale che un accadimento golosamente atteso stava arrivando.

Sembrava di stare in un aereo al momento del decollo sulla pista di partenza ... Ma Totò non apparve sul palcoscenico che continuava a restare vuoto e deserto. Arrivò dal fondo della platea, si materializzò all'improvviso e tutte le teste si voltarono insieme come una gran ventata. In un uragano di applausi, di urla di gioia, di gratitudine, feci appena in tempo a vedere l'inquietante figuretta che avanzava rapidissima lungo il corridoio centrale della platea.

Scivolava come su delle rotelline, una candela accesa in mano, il frac da becchino, e sotto l'ala della bombetta due occhi allucinati, dolcissimi, da rondone, da ectoplasma, da bambino centenario, da angelo pazzo.

Mi passò vicinissimo leggero come un sogno e subito scomparve inghiottito dalle onde del pubblico che si alzava in piedi, lo acclamava, voleva toccarlo, trattenerlo.

Riapparve, ormai irraggiungibile, laggiù sul palcoscenico, in una immobilità catalettica; si dondolava avanti e indietro, in silenzio, leggermente, come un missirizzi, gli occhi che giravano come le biglie della roulette. Poi, di colpo, la funebre cornacchietta soffiò sulla candela, alzò la tesa della bombetta e disse a tutti: " Buona Pasqua ". Ma non era Pasqua. Era novembre, e la sua voce era quella di un sepolto vivo che chiede aiuto.

Qualche mese più tardi, rividi Totò, nell'occasione di una brevissima intervista. Facevo il giornalista, scrivevo una rubrichetta sul l'avanspettacolo per " Cinemagazzino ", un giornaletto tutto scritto da un sarto, si chiamava Reanda ed era tutto pieno di aghi e di fili sulla giacca.

È merito di quel giornaletto se sono venuto una prima volta a Cinecittà. Dovevo intervistare Osvaldo Valenti. Ero io a proporre al direttore-sarto le interviste, proponevo sempre le attrici che mi piacevano, Leda Gloria, Elli Parvo, mi piaceva moltissimo anche Greta Gonda. Ma le interviste con le attrici le voleva fare lui, il direttore, così decisi di intervistare Totò.

Era al Giulio Cesare, un localone immenso che faceva film e grandi avanspettacoli. Era domenica pomeriggio, c'era quella gran folla degli spettacoli domenicali, doveva essere l'intervallo, o forse no, non era ancora cominciato 10 spettacolo, perché Totò stava vicino alla cassa, protetto da transenne per tenere lontana la gente che aspettava di entrare. Era appoggiato al marmo, la testa un po' reclinata, come un mobile o un amorino, come se facesse parte dell'arredamento, il colletto alto, i capelli impomatati, tutto tirato a lustro fumava con un'aria da gran signore, assorto e distaccato. Andarono a dirgli che ero un giornalista. Totò mi guardò e mi fece segno con la mano di raggiungerlo.



Gli dissi che volevo fargli un'intervista. Con un lieve abbassar delle ciglia mi fece capire che acconsentiva, e poi disse subito con tono calmo e definitivo: " Allora scrivete questo: che a me piace la donna e il denaro. Avete capito? Non disse proprio donna, ma pronunciò un vocabolo napoletano che non avevo mai sentito, tenero e osceno, infantile e cabalistico, un suono di sillabe che dava benissimo l'idea di una cosa dolce, molle, umida. Mi vide perplesso: " Perché, a voi non piace? "

Mi guardava sospettoso e divertito. " Avete visto lo spettacolo? " concluse con l'aria di uno zio buono che ha deciso di farti un regalo, e mi fece entrare. Scrissi l'intervista, naturalmente senza riportare quel pochissimo che mi aveva detto, inventai tutto e feci anche un piccolo disegno. Quando il giornale uscì, andai subito a portarglielo, questa volta era al Brancaccio, o forse al Principe, chissà che rivista c'era, c'era un motivo che faceva così: " A me piacciono le bionde con le ciglia volte in su ". O qualcosa del genere. Gli mostrai il giornale col mio disegnino e l'intervista. Mi guardava stupito: " Ma davvero l'avete fatto voi? " Sembrava non crederci.

Poi mi chiese se avevo visto lo spettacolo e mi mandò giù in platea a vederlo un'altra volta.

Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici; la giraffa, il pellicano, il bradipo; e c'era anche la gioia e la gratitudine di vedere l'incredibile, il prodigio, la favola, materializzati, reali, viventi, davanti a te.

Quella faccia improbabile, una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga; quel corpo disossato, di caucciù, da robot, da marziano, da incubo gioioso, da creatura di un'altra dimensione, quella voce fonda, lontana, disperata: tutto ciò rappresentava qualcosa di così inatteso, inaudito, imprevedibile, diverso, da contagiare repentinamente, oltre che un ammutolito stupore, una smemorante ribellione, un sentimento di libertà totale contro gli schemi, le regole, i tabù, contro tutto ciò che è legittimo, codificato dalla logica, lecito.



Come tutti i grandi clown, Totò incarnava una contestazione totale, e la scoperta più commovente e anche confortante era riconoscere immediatamente in lui, dilatati al massimo, esemplificati in quell'aspetto di personaggio di Alice nel paese delle meraviglie, la storia e i caratteri degli italiani: la nostra fame, la nostra miseria, l'ignoranza, il qualunquismo piccolo borghese, la rassegnazione, la sfiducia, la viltà di Pulcinella.

Totò materializza con lunare esilarante eleganza l'eterna dialettica dell'abiezione e della sua negazione.

Si è sempre detto, e ancora si sente dire che Totò al cinema è stato usato male, non gli sono state offerte che raramente le occasioni degne del suo eccezionale talento.

Non credo che Totò avrebbe potuto essere meglio, più bravo, diverso da com'era nei film che ha fatto. Totò non poteva fare che Totò, come Pulcinella, che non poteva essere che Pulcinella, cosa altro potevi fargli fare?

Il risultato di secoli di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò. Il punto d'arrivo di qualcosa che si perdeva nel tempo e che finiva in qualche modo con l'essere fuori del tempo.

Intervenire su un simile prodigioso risultato, modificarlo, costringerlo a qualcosa di diverso, dargli una diversa identità, un diversa credibilità, attribuirgli una psicologia, dei sentimenti, inserirlo in una storia, sarebbe stato, oltre che insensato, deleterio, sacrilego. Miopia della critica? Ma è un po' tutta la nostra educazione, come dire? Occidentale che ci spinge a non accettare le cose come sono, a proiettarci in una prospettiva diversa, a sovrapporci sopra qualcosa di estraneo, di ricercato, di intellettualistico.

Si perde di vista che Totò è un fatto naturale, un gatto, un pipistrello, qualcosa di compiuto in se stesso, che è come è, che non può cambiare, tutt'al più puoi fotografarlo. Nel Viaggio di G. Mastorna avevo pensato a Totò, ma così com'era. C'era un ricordo di Totò e Totò appariva. Non mi sono mai venute in mente storie che richiedessero la presenza di Totò, perché Totò non aveva bisogno di storie.

Che valore poteva avere una storia per un personaggio così, che le storie ce le aveva già tutte scritte sulla faccia? Mi sarebbe piaciuto piuttosto dedicargli un piccolo saggio cinematografico, un ritratto in movimento, che rendesse conto di come era, come era fatto dentro e fuori, quale era la sua struttura ossea, quali erano gli snodamenti più sensibili, le giunture più resistenti e mobili. Avrei voluto farlo vedere in diversi atteggiamenti, in piedi, seduto, orizzontale, verticale, vestito ma anche nudo, per vederlo bene e farlo vedere, così come si fa con un documentario sulle giraffe, per esempio, o su certi pesci fosforescenti degli abissi marini. Avrebbe dovuto essere un'intervista fantastica, un tentativo di catturare il senso di quella straordinaria apparizione che era Totò.

 

Io l'ho incontrato poche volte, e mi affascinava, non credevo ai miei occhi quando lo vedevo da vicino. Ho avuto con lui anche una piacevolissima esperienza come regista, molti anni fa, moltissimi.

Ho diretto il finale di Dov'è la libertà? di Rossellini. Roberto si era ammalato, mi pare, i produttori mi pregarono di concludere in qualche modo il film. Una sequenza minuscola, solo un paio di inquadrature: Totò che saltava in testa all'avvocato Talarico e gli mordeva l'orecchio.

Tutto qua. Ma io ero ugualmente intimidito e a disagio. Come tutti, gli dicevo: " Senta principe, potremmo fare così, ecco, principe, le viene avanti... " E allora Totò mi ha guardato con quei dolcissimi occhi da rondone e mi dice: " Voi mi potete chiamare anche Antonio ". Era un'investitura; sia pure per pochi minuti ero diventato il suo regista.

Ci rivedemmo quando era già avanti negli anni e la vista gli era calata; venne una sera a cena a casa mia con Franca Faldini che gli si mise accanto per poterlo aiutare.

C'erano degli altri amici. Lui se ne stava lì appollaiato come un araldico bellissimo uccello. In un momento di silenzio, mi cercò nel vuoto per capire da che parte ero, credette in qualche modo di individuarmi e con un'espressione da tucano disse all'improvviso, con quella voce rauca, profonda, sfiatata: " Siete diventato un reggistone! " L'ultimo ricordo che ho di lui è un ricordino edificante, da libro Cuore. Stavo facendo il doppiaggio di 81/2, o forse era un altro film, era l'ora della pausa e nel giardinetto della Scalera tutti stavano seduti chi qua e chi là, a mangiare il cestino. Vedo Donzelli, un attore napoletano che guida Totò verso il muretto dove c'è un po' di sole, lo portava per mano, un passo alla volta, come si conduce un ammalato, un cieco. Totò aveva il volto nascosto quasi completamente dietro i grandi occhiali neri che da parecchi anni ormai portava sempre.

Donzelli mi si avvicina, gli chiedo come sta Totò: " Niente, non ci vede per niente, assolutamente niente ", e poi a gran voce, rivolgendosi a Totò: " Principe, lo sapete chi c'è qua? C'è il regista Fellini che vi saluta ". Totò solleva la testa guardando in alto verso il cielo, mi fa molte feste cercandomi le mani, scambiamo qualche parola, e poi rimango lì in silenzio a guardarlo, era più fatato che mai, impalpabile, irraggiungibile. Sorrideva con quel sorriso inerte e disarmato che hanno i ciechi.

Adesso vengono due della produzione a prenderlo uno da una parte e uno dall'altra, lo fanno camminare quasi sollevandolo, come portassero un santo in processione, una reliquia. Spinto da una curiosità insieme scientifica e sentimentale entro anch'io nello studio, voglio vedere come fa a lavorare in quelle condizioni, non posso crederci.

Nello studio tutto è pronto; facendogli evitare i cavi come in un labirinto lo conducono al centro del set potentemente illuminato, lo aiutano ad indossare il suo fracchettino, posa la bombetta sulla testa, ma ha ancora gli occhiali neri sugli occhi, non se li è tolti. Corbucci, credo proprio che fosse un film di Corbucci, gli spiega la scena. Sento che gli dice: " Fai così, arriva fin là, lì ti fermi, dici la battuta, poi corri laggiù dove c'è Enzo Turco ".

Enzo Turco si fa sentire: " Antò, songo accà ", facendogli con le mani un gesto che cade nel vuoto. Tutto a posto? Si accendono altre luci. Motore! Ciak! E solo a questo punto Totò si toglie gli occhiali ed è il miracolo. Il miracolo di Totò che improvvisamente ci vede, vede le cose, le persone, i segni di gesso che limitano i suoi percorsi, non due occhi ma cento, che vedono tutto, perfettamente.

E salta, piroetta, corre sgusciando via in un salotto pieno di mobili, robot tino fantastico che tira piatti e risponde fulmineamente alle domande di Turco, di Donzelli, di Castellani, e la gente della troupe tutta attorno, gli elettricisti sui ponti si mordono le labbra per non ridere, si nascondono la faccia tra le mani. Stop.

La scena è finita, si cambia inquadratura. Nel caos che segue ogni fine ciak Totò si rimette lentamente gli occhiali e tende le braccia in attesa che qualcuno venga a prenderlo, e lo portano via infatti, piano piano, facendogli fare attenzione ai cavi, alle pedanine, alle gente. È tornato quella creaturina incredibile che prendeva il sole poco fa in giardino, un esserino incorporeo, un dolcissimo fantasma che ritornava nel buio, nell'oscurità, nella solitudine.

 

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